MALVASIA
- Le fortune del vino Malvasia, dalla sua scoperta ai suoi successi nei mercati dell'epoca.
Enrico Dandolo, il Doge che ha fatto prosperare Venezia e la Malvasia.
Le fortune del vino Malvasia, dalla sua scoperta ai successi sui mercati dell’epoca, vanno ricondotti alla intelligenza politica e diplomatica di Enrico Dandolo – attitudini da lui usate anche in maniera spregiudicato – che fu eletto quarantunesimo Doge della Repubblica di Venezia il 21 giugno del 1192, quando aveva 85 anni.
Siamo all’inizio del XIII secolo nello Champagne, e più precisamente nel castello di Ecri, dove Tebaldo, conte di Champagne, allora ventiduenne, mandò dei messaggeri a Roma da Innocenzo III affinchè indicesse ufficialmente la IV Crociata e che il papa approvò. Mentre sei cavalieri, guidati da Goffredo di Villehardouin, maresciallo di Champagne, li inviò a Venezia per definire costi e modalità del trasporto delle truppe verso la Terrasanta. Trattative condotte in persona dal Doge Enrico Dandolo, che era ottimo negoziatore. Venezia, alla fine, si impegnò a mettere a disposizione una flotta sufficiente dietro la cifra, enorme per allora, di 85 mila Marche Imperiali d’argento. Inoltre, la Serenissima ottenne la promessa che avrebbe ottenuto la metà dei tesori conquistati. Il Doge, alla fine, trovò l’accordo e accettò il comando della spedizione navale. Finchè l’8 novembre 1202 la flotta, salpò le ancore. Altro colpo da maestro del Doge che, per mettere in pari i conti, ottiene che i crociati vengano utilizzati per assicurare alla Serenissima Trieste, Muggia e Zara, dove passarono l’inverno. Ripresero il mare ma, invece di fare rotta verso la Terrasanta, si diressero a Costantinopoli. A Zara, durante l’inverno, era arrivato Alessio, figlio dell’imperatore bizantino Isacco Comneno e cognato di Filippo di Svevia, per impetrare l’aiuto dei crociati contro lo zio paterno, anche lui di nome Alessio, che aveva imprigionato suo padre, legittimo imperatore d’Oriente, usurpandone il trono. Il Doge, il re di Germania e gli altri marchesi e baroni che comandavano i crociati, intravidero insperati vantaggi economici. Lo intuì soprattutto Enrico Dandolo, il cui sottile disegno si stava concretizzando: conquistata Costantinopoli, la Serenissima sarebbe entrata in possesso dei più importanti porti dell’Egeo e dell’Adriatico. Fu così che i crociati abbandonarono il progetto di far guerra ai Saraceni e diressero le navi verso la città imperiale, dove la flotta giunse il 24 giugno del 1203. Costantinopoli fu conquistata e saccheggiata il 9 aprile del 1204.
Nel 1248 i veneziani, grazie ai buoni rapporti con Goffredo di Villehardouin, erano penetrati nell’entroterra di Monemvasia e avevano scoperto la prelibatezza del suo vino.
Questa Malvasia, pensano gli arguiti veneziani, “è un vero e proprio nettare, da portare a casa imporlo sui mercati, anche perché, robusto come si presenta, resiste ai viaggi per mare e per terra”. Fu così che questo vino ultramarino o anche vino navigato, approda a Venezia: è costoso e quindi prezioso, berlo ed offrirlo diviene presto un simbolo di prestigio personale. Per i mercanti che la trattano, la Malvasia è una fonte sicura di palanche, ne tengono alto il prezzo perché a Venezia el bon marcà rovina le scarsèle, il prezzo basso rovina le tasche.
E’ l’inizio della storia della Malvasia.
Venezia e il vino, un dialogo tra l’autore e Attilio Scienza.
Quella che segue è una sorta di dialogo dell’Autore con Attilio Scienza, che ha fatto un importante lavoro di ricerca sul rapporto di Venezia col vino e la Malvasia in particolare. Già professore ordinario di Viticoltura presso l’Università di Milano ed uno dei maggiori esperti del settore a livello mondiale, Attilio Scienza è studioso poliedrico per la sua capacità di interpretare la storia della viticoltura in maniera trasversale, unendo l’archeologia alla semantica, i cambiamenti climatici alla storia economica e politica, fino a far parte dei primi gruppi di studio sul DNA delle viti. Davvero omen nomen, Attilio Scienza. Nel nostro dialogo non si parla né di viticoltura né di enologia, ma ci cerca di ordinare le tante sfaccettature che hanno fatto della Malvasia un brand mondiale per oltre quattrocento anni.
Le dinamiche che hanno portato la Malvasia a prevalere sui mercati per quattro secoli.
Per capire i motivi e le dinamiche del grande successo della Malvasia, durato almeno quattro secoli – caso ancora unico nella storia della enologia mondiale – ci viene incontro la storia di Venezia, che col vino aveva un rapporto speciale e sul quale si sono fondate molte delle sue fortune economiche. Venezia è una città–stato, caratterizzata dalla gestione assembleare del potere. Venezia non è solo la più orientale delle grandi città occidentali, ma è una città orientale. Le condizioni nelle quali, durante l’Alto medioevo, prese forma Venezia favorirono il consolidarsi di forme di mentalità e di civiltà particolari che avevano origine dallo speciale legame che aveva con Bisanzio e che facevano della città un punto di cerniera tra le grandi culture del tempo.
Sulle rotte commerciali, peraltro, non viaggiavano solo merci e denari, ma anche e soprattutto le idee. Venezia intuisce che è necessario trasformare il vino da un genere alimentare in un oggetto di culto, in un’icona. Se i greci avevano legato il vino a Dionisio per l’uso rituale nel simposio, Venezia carica i vini del Mediterraneo orientale di valori laici, trasformandoli in una moda, in un rimedio per il corpo e per lo spirito in un Europa afflitta dalle carestie e dalla peste nera per le conseguenze della “piccola glaciazione”. Venezia non usa il simbolismo greco della morte e della resurrezione (dall’uva al vino), né quello del sangue mistico del rito cristiano, ma in quello più moderno dello status symbol, più vicino ai modelli della Roma imperiale, del luogo d’origine e della rarità. Adotta, ante litteram, i più efficaci metodi della comunicazione contemporanea, legando quei vini ad un consumo elitario, donandoli ai regnanti del suo tempo, offrendoli nel corso dei banchetti ufficiali dove poteva farli assaggiare al corpo diplomatico di tutta Europa. Applica a questi vini tariffe daziarie elevate per limitarne il consumo alle sole classi abbienti. Valorizza il senso dell’origine, la provenienza da territori lontani carichi di mistero quali erano quelli controllati dai bizantini ed usando il nome del luogo per commercializzarlo, novità assoluta in un’epoca nella quale i vini erano designati con indicazioni molto generiche, de plano, de monte o di vitigno. Offre ai consumatori una tipologia di vino allora sconosciuta in occidente: dolce ed aromatico.
Venezia coglie le opportunità che gli sono offerte da alcuni aspetti particolari di quella fase del Medioevo, come la necessità, in un’economia di mercato, del rifornimento di generi alimentari provenienti da territori lontani e la crescente domanda di un particolare tipo di vino presso le élite sociali emergenti (i mercanti e la borghesia), stimolata dalla sua preziosità e dal conseguente costo elevato che ne accresceva il valore simbolico.
Aspetti, questi, del fabbisogno alimentare, drammaticamente posti all’attenzione dell’Europa dal raffreddamento del clima che non consentiva una produzione sufficiente di cereali ed il raggiungimento di un livello di maturità delle uve necessario per garantire la durata dei vini europei.
I capricci del clima e la Piccola Era Glaciale.
I secoli attorno all’anno Mille avevano offerto all’Europa un clima caldo, tale da spingere la viticoltura a latitudini molto elevate, fino in Scozia e ad altitudini nelle Alpi altrettanto inconsuete, attorno ai 1200 metri slm.
In questa fase, chiamata optimum climatico, la viticoltura si espande anche all’interno delle vallate alpine, accompagnata dall’allevamento dell’olivo ed occupa intere regioni dell’Europa continentale per l’azione delle istituzioni monastiche.
Il clima ha sempre avuto un’influenza, a volte anche decisiva, su vari momenti della vita dell’uomo. Dalla fine del V secolo, comincia la “Piccola Glaciazione della Tarda Antichità”, che innesca il periodo più freddo di tutto il Tardo Olocene. E’ l’epoca del dark ages, i “secoli bui” della regressione sociale e politica, almeno per la zona occidentale del pianeta, che si protrae, più o meno, fino al X secolo. Il momento di partenza della cosiddetta anomalia climatica medievale che dura fino alla fine del Duecento. Una oscillazione di tre secoli, dovuta a due eventi di maggiore impatto: una diminuzione delle attività vulcaniche tra il 960 e il 1000 e un’azione più energica del sole (altrimenti definita great solar maximum), che porta ad un riscaldamento globale di uno o due gradi in media, con punte, nel profondo Nord, di quattro gradi. Un periodo di inusuale clima relativamente caldo che coinvolse in modo particolare gran parte dell’emisfero settentrionale, dell’America del Nord alla Cina. Il fenomeno ebbe effetti straordinari, sebbene eterogenei, da una zona all’altra. Nell’estremo Nord, i ghiacciai si sciolgono. Regioni fino ad allora impenetrabili, come l’interno della Russia, l’Islanda, la Groenlandia, il Nord del Canada diventano accessibili. In molte zone uomini e coltivazioni si spostano verso settentrione e verso l’alto. Nuovi tipi di grano si installano in Scandinavia e in particolare in Norvegia. L’uva cresce in Inghilterra diverse centinaia di chilometri più a Nord rispetto ai limiti attuali, fino in Scozia. Piante subtropicali come il fico o l’olivo, trovano spazio in regioni come la Germania o l’Italia settentrionale. I ghiacciai arretrano. Condizioni che influenzano l’ambiente, le colture, la quotidianità, qualità dei vini e cibi compresi. Il clima mantenne un suo assetto più o meno stabile, con effetti evidenti sul balzo demografico a livello planetario, fino a una data simbolo: il giorno di Santa Lucia, 13 dicembre, del 1287, quando una terribile inondazione si abbatte sul vasto litorale che andava dalle coste inglesi a quelle delle attuali Olanda e Germania. Le onde del mare del Nord invasero terre, abbatterono dune, seppellirono villaggi, distrussero ogni cosa. Si parlò di 30.000 morti. Una tempesta perfetta.
Preludio a una fase climatica che verrà chiamata “Piccola Era Glaciale”.
È l’inizio della fine del feudalesimo e la localizzazione dei vigneti in Europa subisce un drastico cambiamento: la viticoltura scompare dall’Inghilterra e da tutte le valli interne delle Alpi. Si poteva attraversare a cavallo sul ghiaccio il Danubio a Vienna, il Meno a Francoforte, il Reno a Strasburgo. La grande gelata del 1709 distruggerà gran parte della viticoltura continentale. Piccola glaciazione che ufficialmente si conclude con la “famine irish potato” del 1850.
La carestia alimentare, determinata dalla mancanza di grano per le cattive condizioni climatiche, è la causa della diffusione della peste nera e, in campo viticolo, della produzione di vini di basso grado che non riescono a superare la primavera senza inacidire.
Durante il periodo del great solar maximum, per ricollegarci a Venezia, le classi abbienti europee si erano abituate a consumare vini di elevata qualità: pastosi, dolci, vellutati, piacevoli e non “garbi”, come venivano definiti a Venezia i vini del popolo: astringenti, pessimi.
La nobiltà e l’alto clero non si rassegnano a bere vini di così bassa qualità e si rivolgono alle produzioni del Mediterraneo orientale, la cui fama risaliva ai tempi dei commerci etruschi e dell’Impero romano.
E’ qui che entra il gioca la perfetta organizzazione politica, legislativa, commerciale e di relazioni della Repubblica di Venezia, una Città-stato che sia era inventata quella che noi oggi definiremmo una economia che controllava l’intera filiera del vino: dalla produzione alla vendita, passando per la logistica (i fondaci della Malvasia) e il commercio.
Fu così che, complice l’attività mercantile della Repubblica di Venezia, cominciano ad arrivare in Italia ed in Europa settentrionale le Malvasie, i Vinsanti ed i Moscati dolci del Sud del Mediterraneo, aree che erano state risparmiate da questa crisi climatica e che divennero i luoghi privilegiati per la produzione di vini dolci.
Il successo commerciale di questi vini è enorme e questo stimola la produzione di prodotti simili, per caratteristiche organolettiche, in molte località dell’Italia e sulle coste orientali dell’Adriatico. Il processo di produzione e di delocalizzazione, diremmo oggi, è favorito anche dalla conquista di Creta da parte dei Turchi, avvenuta nel 1564, che toglie a Venezia i vigneti dove avveniva la maggiore produzione delle Malvasie. Ma la Serenissima non rinuncia al ricco mercato della Malvasia e stimola la produzione di questi vini dolci ed aromatici con vitigni presenti nei vari luoghi, diversi dalla varietà originale, che chiama però tutti con il nome di Malvasia.
Attorno alla Malvasia, la Serenissima costruì un esempio moderno di filiera, dove la produzione era delocalizzata, mentre la distribuzione e le relazioni politico-commerciali erano saldamente nelle mani dei veneziani. Filiera che, alla fonte, si basa sulla regola che la produzione – i vigneti e la trasformazione – fossero a ridosso dei porti (che loro o dominavano o con in quali avevano strette relazioni commerciali). Da lì entrava in azione la sua flotta, che faceva capo alla logistica della città-stato – i fondaci, di cui uno chiamato “della Malvasia – da cui poi partiva la fase di distribuzione sui vari mercati. La lungimiranza dello Stato veneziano aveva organizzato in proprio anche la costruzione delle navi all’Arsenale.
È quindi il mercato globale, la rete dei suoi commerci, a fare di Venezia una città non meno esotica, per modernità e contaminazione dei costumi, dei porti cinesi o indiani nei quali faranno scalo tutte le potenze commerciali d’Europa nei secoli successivi, anche grazie ad una efficiente, e sofisticata, rete di spionaggio.
La Malvasia era un po’ il passepartout, la chiave per aprirsi e gestire i mercati più ricchi. Un esempio tra i tanti? L’anno in cui l’Inghilterra perde Bordeaux – 1453 – e i turchi conquistano Costantinopoli, i veneziani mandano ai reali di Inghilterra otto botti di Malvasia e così conquistano quel mercato.
Venezia non poteva avere concorrenti. Non avrebbe potuto, ad esempio, gestire una produzione come l’abbiamo oggi, con tante DOC e migliaia di produttori indipendenti ognuno con una propria etichetta. Il suo commercio era monopolistico, stile Amazon. Il mercato era suo e solo suo. Chi produceva non conosceva la destinazione del vino, il cliente finale. E questo monopolio durò per oltre quattro secoli, un’eternità se rapportato ai rapidi cambiamenti commerciali odierni. Dominio che incominciò ad incrinarsi con l’arrivo sulla scena internazionale di Paesi che, dopo la scoperta delle Americhe, divennero potenze marinare come Inghilterra, Portogallo, Spagna, Olanda.
Con i mercanti veneziani, l’offerta merceologica cambia profondamente: i vini non vengono più riconosciuti solamente per il loro colore (bianchi o vermigli) o dal nome del vitigno da cui sono prodotti (vernacce, ribolle, schiave, eccetera) ma per i luoghi da dove provengono.
È il primo esempio in Europa, di norma succedeva il contrario, di un vino che, con il suo nome, denomina tanti vitigni, senza rapporti di parentela genetica e tra essi distinti non per l’aggettivazione relativa al luogo di nascita o alle caratteristiche del grappolo, bensì dal fatto di dare origine ad un vino dolce, aromatico, alcolico.
Un vino, la Malvasia, che si basa su caratteristiche organolettiche molto precise, standardizzate e quindi di facile riconoscibilità, grazie all’elevato grado alcolico e trasportabile senza subire alterazioni nel sapore. Fu il trionfo della omologazione del gusto, contro cui stanno ora combattendo i vignaioli di qualità del mondo.
La perdita di Candia (Creta)
L’espansione ottomana nel Mediterraneo toglie ai veneziani, come abbiamo visto, l’isola di Candia nel 1564 e con lei buona parte della produzione di Malvasia. È questo l’evento cruciale che fa nascere le tante Malvasie nel Mediterraneo. Da un lato perchè Venezia non rinuncia al suo ricco mercato e dall’altro in quanto la fama del vino aveva stimolato, per emulazione, la produzione di vini simili, anche se ottenuti da vitigni diversi, in molte regioni italiane e presso i concorrenti francesi e spagnoli. Venezia, infatti, commissiona in un certo senso la produzione di vini dolci, aromatici ed alcolici simili alla Malvasia a molti produttori, soprattutto dei territori che controllava politicamente quali quelli dell’Istria, delle coste dalmate, della costa adriatica e dell’entroterra veneto friulana. Le testimonianze più antiche scritte sulla coltivazione delle Malvasie in Italia sono comprese tra il 1500 ed il 1600 e rappresentano il tentativo di insidiare l’egemonia veneziana in alcuni mercati locali di questo vino, ma è anche la prova che Venezia aveva già creato una rete di subfornitori di Malvasia a lei vicina già prima della perdita di Candia, per avere una maggiore disponibilità di questo vino.
Molti vitigni cambiano così nome per diventare Malvasie, il che porterà, col tempo, ad avere diverse Malvasie, basti pensare che solo in Italia ve ne sono ben diciannove iscritte nel Registro nazionale delle varietà e tra loro profondamente diverse per caratteristiche morfologiche e qualità del vino.
Pertanto, date le grandi differenze genetiche tra loro, quella delle Malvasie non può essere definita come una famiglia varietale, confermate anche dalle numerose indagini condotte analizzando il DNA, che ne hanno evidenziato le elevate distanze genetiche. Va anche segnalata la mancanza di un legame genetico tra le Malvasie greche, italiane e dell’Istria e questo può essere giustificato dal fatto che nelle zone di produzione della Malvasia nel Peloponneso i vitigni utilizzati erano altri, quali il Liatico, la Vilana, il Thrapsathiri, eccetera. In Grecia, infatti, è presente un solo vitigno chiamato Monemvasia o Monemvasitica, coltivato nelle Cicladi e nell’Eubea, mentre altre varietà chiamate Malvasie bianche e nere sono diffuse in modo molto sporadico in altre zone viticole greche, come a Santorini.
Singolare è, inoltre, il caso di omonimia di alcune Malvasie bianche (di Dubrovnick, di Bosa, di Sitges, di Madera, delle Lipari, Greco di Bianco) coltivate attualmente in diverse località del Mediterraneo e, non a caso, rappresentate da porti, che l’analisi del DNA ha trovato essere lo stesso vitigno. È stato dimostrato che la Malvasia di Basilicata deriva da incrocio spontaneo tra Verdeca e Plavina confermando così i legami di questo vitigno meridionale con il Primitivo, tra la viticoltura pugliese e quella della Dalmazia in Croazia.
Non vanno inoltre dimenticati alcuni vitigni chiamati con il nome di Malvasia coltivati soprattutto sulle coste del Mediterraneo, tra le quali si ricordano la Malvoisie a gros grains o Vermentino, la Malvoisie du Roussillon o Torbato, la Malvoisie du Valais o Pinot grigio, la Malvasia rosé o Veltriner, la Malvasia di Candia e di Madeira usata per produrre Malmsey, la Malvasia Rei del Portogallo, la Malvasia bianca delle Isole dell’Egeo (Paros e Syros soprattutto) e la Malvazija della Croazia.
Le Malvasie più coltivate oggi in Italia e in Istria sono curiosamente quelle più lontane dall’immaginario sensoriale che aveva questo vino nel Medioevo, in quanto sono solo in piccola parte aromatiche e tutt’altro che adatte all’appassimento (a parte quella di Dubrovnick che è la stessa delle Lipari).
Il successo commerciale dei vini di Malvasia sta però per concludersi, in parte perché la potenza economica di Venezia in declino non controlla più il commercio del vino nel Mediterraneo nei confronti dei concorrenti inglesi ed in parte perché la “rivoluzione delle bevande”, che attraversa i Paesi del Europa settentrionale tra il 1600 ed il 1700, sposta l’interesse del consumatore verso i vini di Sauternes, di Porto, dell’Andalusia ed il Vermut.
Consumo di vino a Venezia
Venezia era una capitale del vino non solo per i commerci, ma anche per i consumi. Tra il XVI ed il XVII sec. Venezia diventa il maggior centro italiano di consumo del vino. Ha una popolazione che oscilla tra 130.000 ed i 160.000 abitanti ed è quindi la seconda o la terza città della Penisola. Una stima del 1673, che valuta una popolazione di 200.000 persone (compresi i clandestini molto numerosi ed i marinai della flotta attraccata ai moli), assegnava un consumo annuo di un’anfora (circa 6 hl) ad abitante, circa un 1,5 l/giorno, uomini e donne, bambini compresi.
Questa valutazione si può ritenere attendibile in quanto la Repubblica era molto precisa nell’applicazione dei dazi in entrata.
Dalla metà del ‘700 si assiste ad una progressiva contrazione nei consumi di vino imputabile non solo al declino demografico delle città, ma anche agli effetti della cosiddetta “rivoluzione delle bevande” che favorì il consumo di caffè, the, cioccolato ed acquavite, quest’ultima in sostituzione non tanto del vino generico, ma della Malvasia che, considerata un “capo voluttuoso e di lusso” e quindi “non necessaria alla vita umana”, era sottoposta ad una tassazione molto elevata.
Il servizio del vino a tavola, pionieri del sommelier
Ancora una volta all’innovazione di prodotto e di processo, si accompagna la disponibilità di risorse economiche, che consentono a questi vini di diventare simboli di ricchezza e di distinzione e quindi di essere consumati dalle classi più abbienti. È curioso come la bottiglia diviene subito status symbol e non solo perché è un comodo contenitore. Venezia, circa cento anni prima, con lo sviluppo dell’arte vetraria a Murano, produce non solo le bottiglie da vino di vetro pesante, ma una serie di accessori per servirlo, di vetro limpido e di grande finezza stilistica che consentivano, per la prima volta, al consumatore abituato ai contenitori di peltro, argento o stagno, di vedere in trasparenza il colore del vino che stava bevendo. L’innovazione operata dalla bottiglia non si limita ad allungare la vita del vino per favorirne il trasporto, ma introduce un nuovo aspetto nel suo commercio, rappresentato dalla sua possibilità di essere stoccato, che consente nel controllare non solo l’evoluzione del vino nel tempo, ma attraverso la gestione dell’offerta: evitare cali di prezzo dovuti alla necessità di dover vendere il vino per le sue precarie condizioni di stabilità e durata.
Quest’innovazione, che appare oggi quasi ridicola, è testimoniata ad esempio nel quadro del Veronese del 1563, “Le nozze di Canaa”. Da quel giorno i vini, soprattutto dolci, presenti sulle tavole importanti, ove il vino viene servito da caraffe e bicchieri trasparenti definiti “alla moda di Venezia “, di magnifica fattura, dovevano essere limpidi e quindi prodotti con tecniche enologiche più raffinate che in passato.
Vale la pena di ricordare che a Venezia esisteva, sin dal 1505, la corporazione dei mercanti da vin, cui si associò, nel 1609 la confraternita dei venditori, portatori e travasadori de vin. Quest’arte eresse, come sede stabile per le riunioni del proprio sodalizio, un edificio – tutt’oggi visibile – prospiciente il campo di San Silvestro, poco distante dalla Fondamenta del vin ove stazionava la maggior parte delle imbarcazioni per lo scarico, l’immagazzinamento e la vendita all’ingrosso dei vari vini giunti nella Dominante.